venerdì 5 giugno 2015

LoveMEATender


Oggi torno con un consiglio cinematografico: LoveMEATender, un documentario del regista belga Manu Coeman.  Una visione a 360° sul mondo della carne e sul suo altissimo impatto ambientale. Coeman cerca di mettere insieme tutti i pezzi del puzzle, dando un'idea chiara della complessità della questione "allevamento intensivo-consumo smodato di carne". Un ottimo punto di partenza per chi volesse avvicinarsi per la prima volta a questo tema, e avere i primi spunti per una ricerca personale.







Si parte dalla follia dell'allevamento intensivo, che porta con sé innumerevoli conseguenze. Prima fra tutte la diffusione su larga scala negli anni '60 della coltura di mais e soia, che si sostituiscono al foraggio e al fieno nell'alimentazione degli animali, alterandone totalmente il metabolismo  e d'altro lato portando a un'espansione esponenziale della loro monocultura, che porta con sé la necessità di  spazi sempre più grandi, quantità sempre più alta di pesticidi per una resa ottimale del raccolto, impoverimento della terra, spazio sottratto alla coltura destinata al consumo umano, perdita di biodiversità. 
La globalizzazione arriva con un tempismo perfetto per sopperire al bisogno di terra e manodopera  a basso costo: i paesi del Sud del mondo si lanciano allora (diciamo anche forzatamente) nella coltivazione intensiva di mais e soia, per farlo si bruciano le foreste equatoriali e si toglie la terra e il lavoro agli abitanti di quelle terre, ridotti in condizioni di povertà e pericolo. 
Con la globalizzazione ovviamente il "libero mercato" si basa sul petrolio, perché tutto deve essere trasportato innumerevoli volte da una parte all'altra del pianeta.

Accanto a questi problemi ci sono i problemi che l'allevamento intensivo crea in loco: primo fra tutti lo smaltimento delle quantità inimmaginabili di letame che gli animali producono. Ma uno smaltimento efficace non c'è, così i nitrati si accumulano in quantità tossiche nella terra e nelle falde acquifere. L'allevamento intensivo poi non considera gli animali come esseri viventi, ma come beni di consumo che danno profitto, così le condizioni di vita delle bestie sono brutali: spazi ridottissimi, alimentazione totalmente contro natura, uso copioso di antibiotici, morti sommarie... Accanto a tutto questo poi mettiamoci anche la perdita della biodiversità, l'industria alleva solo pochissime razze selezionate, che resistono alle condizioni, oserei dire di tortura, a cui sono sottoposte.
Tutto questo arriva nel nostro piatto ad un costo effettivamente molto basso, che fa sembrare conveniente e innocuo l'acquisto di carne industriale. Ma proviamo a mettere nel nostro piatto il costo dell'inquinamento, dello sfruttamento umano, della perdita di foreste, della qualità bassissima della carne che mangiamo, della quantità di antibiotici che assumiamo insieme alla bistecca...

Coeman riesce a raccontare tutto questo in maniera schematica ed efficace, con parentesi divertenti che alleggeriscono il boccone amaro.

Un documentario che consiglio in particolar modo a chi vuole avere un primo approccio con la complessità e le storie lontane, e purtroppo spesso tragiche, di quello che mettiamo ogni giorno nel piatto. 

domenica 3 maggio 2015

Un posto per me

Oggi è stato un giorno decisamente blue, uno di quei giorni di cielo grigio, pesante, che disturba la mente e l'anima. Poi per svoltare la serata mi sono detta: "dai andiamo a provare il giapponese molto fighetto a tre passi da casa" (vivere nel centro di una cittadina minuscola e pianeggiante fa sì che ogni cosa sia vicina in un modo quasi ridicolo). Allora concediamoci questo diversivo, il sushi (che di salutare non ha granchè), l'insalata di alghe, la zuppetta di miso, tutto molto #foodporn e instagrammabile, io per fortuna però il cellulare l'avevo lasciato a casa. Una cena fuori non salva il pianeta, ma a volte può svoltarti la giornata se la cura e la creatività dei giovani dietro al bancone hanno il potere di stupirti e di farti uscire dal tunnel grigio di una giornata di luna storta.

Tornata a casa mi rendo conto della mole di lavoro che dovrei svolgere nel giro di 4 giorni, due esami, articoli da leggere, cose da scrivere, ma nel realizzare che questa settimana dovrò trottare, mi accorgo anche che sono soddisfatta, che frequentare un master in Food Culture & Communication all'Università di Scienze Gastronomiche è una delle scelte migliori che io abbia fatto nella mia vita.
Parlare di cibo (e mangiarne in dosi non raccomandabili), di agricoltura, di antropologia, condividere la vita con simpatiche donzelle da tutto il mondo è l'esperienza che ci voleva. In questi giorni penso spesso ai miei anni passati nelle facoltà di lettere e realizzo che per parlare di letteratura o di cinema bisogna avere una teoria, bisogna far prevalere il proprio gusto su quello degli altri, ricordo la frustrazione quando qualcuno, guardandoti dall'alto in basso, diceva "Ma come Mimesis di Auerbach non l'hai mai letto?", "Non ti è piaciuto la Coscienza di Zeno?". No effettivamente no.
Il cibo invece appiana tutto, davanti a un piatto di spaghetti al pomodoro siamo tutti uguali, non importa quanto abbiamo letto, a quanti pensatori illustri ci ispiriamo. Col cibo posso esprimere amore, posso parlare di società, di politica, in un modo più semplice e diretto, che non ha bisogno di teorie interpretative da spiegare con parole astruse. Ho trovato la mia via per la complessità semplice.



Continuo a non sapere cosa sarà di me, ma ora non lo so con più fiducia, con più determinazione e finalmente con passione.

mercoledì 15 aprile 2015

Mangiare è un atto agricolo

Una mattina di febbraio, il giorno dopo un diluvio universale, vado tutta allegra e felice al mercato dei contadini, ma lo trovo deserto, c'è solo una signora con un banchetto che mi attira poco, perché non risponde all'idea di genuino che cerco (chi mi conosce sa che sono di gusti un po' difficili). Allora vado dalla bottega biologica in cui trovo il mio Pane, ma anche lì il nulla eterno... dopo un momento di sbigottimento il negoziante mi svela l'arcano: il diluvio del giorno precedente non ha permesso ai contadini di raccogliere alcun che.
Uscita dal negozio con qualche carota, rifletto su quanto ero stata sciocca a non pensarci da sola.

L'altro giorno sono andata, di nuovo allegra e felice (è l'effetto che mi fanno le verdure...), a ritirare la mia cassetta al GAS, ma la mia felicità si è presto trasformata in delusione, invece della varietà e della sorpresa che riservano ogni volta le cassette, piene di quello che offre la stagione, trovo una quantità infinita di carote, qualche patata, insalata e fra le altre cose qualche mela tutta rugosa e raggrinzita...
Cosa è successo mi dico? Anche qui lascio lavorare un po' le sinapsi e ci arrivo: siamo all'inizio della primavera, la natura ha i suoi ritmi. Le colture invernali stanno finendo, ma le verdurine primaverili non sono ancora pronte per la raccolta. Quindi se voglio rispettare i ritmi della natura devo accontentarmi di una vita da coniglio per qualche tempo.



Wendell Berry ha detto che "mangiare è un atto agricolo", sembrerebbe banale e scontato, ma riflettendoci non lo è affatto. Che cosa sappiamo di agricoltura? Quanti di noi saprebbero riconoscere una coltura di melanzane, oppure distinguere un melo da un pesco?
Molti hanno ancora la fortuna di vivere circondati dalla campagna, ma pochi sono in qualche modo informati. Siamo talmente abituati a vedere i banchi dei supermercati pieni di cibo in ogni stagione, che abbiamo perso totalmente il rapporto con la terra, o meglio con l'agricoltura!

Ci battiamo per molti diritti, ma abbiamo totalmente affidato all'industria uno dei pilastri della nostra sopravvivenza: il cibo. Ci piace essere definiti "consumatori" anche quando mangiamo e non ci sembra di essere soggetti passivi in questo campo. Abbandoniamo i supermercati, torniamo ai contadini, diamo loro valore, compriamo la nostra verdura al mercato dei produttori locali, cerchiamo di capire quali sono i costi nascosti dei pomodori a 0,80 centesimi e perché danneggiano noi e chi lavora nell'agricoltura. Apriamo gli occhi e torniamo alla terra.

"One reason to eat responsibly is to live free" W. Berry



domenica 15 marzo 2015

Il profumo del pane

Nuovo inizio, nuova vita. Bra, nelle Langhe, terra di Barolo e di formaggio. Abitudini da creare, scoperte da fare, luoghi da imparare ad amare. Per vivere serena e felice però ho bisogno del pane, certo di pane è pieno ovunque, ma non di pane come dico io.

Io vivrei di solo pane, molto poco evangelicamente. Se finissi su un'isola deserta e potessi scegliere solo due cibi da portare con me, porterei pane e olio, che sono per me un po' come le madeleines di Proust: aprono le porte della memoria, mi fanno sentire a casa, al sicuro. Ma ovviamente devono essere un buon pane e un buon olio.



Nella mia vita di mangiatrice compulsiva di pane (ci sono foto che mi ritraggono bambina alle prese con un filone di pane alto più o meno quanto me) ho scoperto relativamente tardi quale fosse il vero pane,  e da allora ogni volta che mi sono trasferita in una nuova città, la prima cosa che ho fatto per sentirmi a casa, per sentirmi a mio agio, è stata cercare il mio pane.

Una fornaia di Bra ha definito il pane che cerco io "il pane di una volta", io semplicemente lo definisco il pane VERO. Per essere vero un pane innanzitutto non deve essere fatto di farina 0 o 00, ma almeno con una farina 1 o 2, questo significa una farina meno raffinata, meno bianca alla vista, una farina viva e che abbia ancora al suo interno qualcosa che sia veramente nutriente. Ma per parlare di farine dovremmo aprire un triste capitolo, perchè di farine vive, non tagliate con strani miscugli, non addizionate, se ne trovano ben poche, con grande difficoltà e caparbietà, e certamente non nella grande distribuzione.

Il secondo aspetto fondamentale del pane vero è il sapore: un pane vero sa di qualcosa, quando ne masticate un pezzo vi rimane in bocca un gusto netto, percettibile, non uno strano vuoto zuccheroso. Di pane vero ne basta una fetta, bella soda e compatta, con una mollica densa e fitta, che non farà mai quell'orribile pallina gommosa se la lavorate fra le mani.



Il pane vero deve durare almeno una settimana, rimanendo sempre commestibile e non diventando secco e duro come un mattone già dal giorno dopo in cui è stato fatto. Il pane di cui parlo ha anche un suo prezzo, che si aggira in media sui 4 € al kg, dovuto anche al maggior costo della farina, che è viva e quindi deperibile, e perciò più delicata, e ai tempi di lievitazione naturale che sono nettamente più lunghi, ma è un prezzo che viene facilmente ammortizzato se si considera la lunga durata e la maggiore resa.

Per me la consapevolezza del cibo è iniziata dal pane, dalla scoperta della sapienza e della pazienza che c'è dietro a una semplice pagnotta, e continua ancora con la ricerca paziente del mio pane che ogni posto nuovo mi obbliga a fare. Se inizierete a mangiare un buon pane non potrete più tornare indietro, tutto il resto vi sembrerà aria, cibo vuoto, che regala solo un simpatico senso di gonfiore. Chiedete ed esigete un buon pane, parlate con i fornai e diffidate di chi non sa darvi risposte sulla farina che usa o sui metodi di lievitazione: scappate a gambe levate e cercate chi sappia spiegare con la luce negli occhi la propria arte.

martedì 24 febbraio 2015

Riflessioni tra ossessioni e paranoie

Questa sera sono soddisfatta, ho inventato una ricetta al volo, di quelle: ho tre carote e un porro e ci risolvo la cena... Poi sono soddisfatta perché ho letto metà di un libro che si chiama "Al sangue o ben cotto", un libro di stampo antropologico sui miti e i riti del cibo, un genere di letture che diventa sempre più interessante ai miei occhi, soprattutto quando sociologia e antropologia si intrecciano e danno un senso nuovo a usanze che sembrano diventate piatte. Per ultima cosa sono soddisfatta perché sto qui a scrivere questo post e a fare outing: da perfezionista precisina, prima della classe, ho l'ansia da post. Prima di buttarmi a scrivere vorrei avere una tesi di laurea tra le mani, che spieghi il perché e il per come del mondo, con tanto di bibliografia ragionata e indice analitico... Ma insomma, non siamo a Yale, io non sono un'accademica e i miei 4 lettori sono convinta avranno aspettative più basse. Poi questo non è il diario delle mie paranoie, quindi bando alle ciance.

Quello di cui vorrei parlare è più che un'idea, un abbozzo di idea, un'impressione, che però mi porto dietro da alcuni giorni e su cui ho avuto modo di tornare a riflettere. Tutto nasce dalla mia frequentazione, diciamo assidua, dei social network,  soprattutto Facebook, Instagram, You Tube. Seguo alcune personalità o personaggi, non saprei, più o meno noti del mondo del "food"(per dare un tocco glamour), e tutti più o meno, sponsorizzano qualcosa. Pagati per farlo, o solo molto riconoscenti per i "regali" che ricevono, fanno quello che ora va tanto di moda chiamare product placement: io tradurrei pubblicità, occulta o meno dipende dall'allenamento di chi guarda.

Partendo dal discorso della pubblicità, messa per benino un post sì e tre no, sono rimasta un po' sconvolta dallo scienziato belloccio di turno (che ora va molto in voga tra chi è alla continua ricerca di qualcuno che gli dica "come mangiare nel mondo giusto") che qualche giorno fa inserisce la foto di  un pasto a base di polpette di quinoa, congelate e imbustate da una nota ditta di surgelati italiana. Quello che mi ha fatto riflettere, oltre  al fatto che sempre e comunque ci si vende, perché come dicevano i latini "pecunia non olet", e quindi si diventa presto sponsor amichevoli e rassicuranti di un marchio, è soprattutto l'ossessione, quasi compulsiva, di chi commentava la foto, nel chiedere: cos'è? che marca è? dove si compra? dove posso trovarlo?

Un'ossessione senza pari per l'acquisto, che siano vestiti, trucchi, e ahimè, cibo. Bisogna comprare, comprare, comprare, provare "prodotti". E chiamare "prodotti" gli alimenti è una cosa che mi fa un po' rabbrividire, perché mi dà l'idea chiara di un mondo in cui tutto è compra-vendita.



Insomma, una riflessione da cui non mi tiro indietro, ma che mi è servita per guardarmi dal di fuori, quanto il marketing ci influenza? Quanto ci facciamo ingannare dalla bella faccia di chi si fa sponsor, a volte in "buona fede"? Quanto vogliamo solo COMPRARE, e allora un rossetto o una nuova busta di surgelati non fanno molta differenza?

martedì 17 febbraio 2015

Mangia cibo vero

Avrei voluto chiamare questo post “fai la spesa come se fossi tua nonna”, poi ho pensato che mia nonna, che ha 90 anni suonati, mi consiglia sempre di comprare le tagliatelle ai funghi surgelate dell’Eurospin, che sono tanto buone! Allora forse non è il caso di prendere mia nonna ad esempio, magari potrebbe andare meglio la sconosciuta bisnonna…

Ma perché parlo di fare la spesa come un’anziana signora nata prima del 1930? Dicevo nello scorso post di come il cibo possa essere considerato un atto politico: ognuno di noi si trova a fare la spesa almeno una volta a settimana e, nella maggior parte dei casi, si rivolge per questo a un supermercato. Bene, ognuno scegliendo cosa comprare determina il mercato, che certo ci domina con tutte quelle strategie chiamate marketing, ma insomma se ognuno di noi seguisse delle piccole linee guida per fare la spesa avverrebbe una rivoluzione!
Per ora non mi addentrerò nelle complesse storie del da dove vengono le banane o il caffè, e non farò quei discorsi un po’ spocchiosi del tipo: “la Coca Cola no, la Nestlé no, la Unilever no”.

Torniamo alla nonna, o meglio alla bisnonna: Michael Pollan nel suo libro In difesa del cibo (Adelphi) dà alcuni semplici consigli su come scegliere cosa mettere nel carrello, se proprio non potete fare a meno di fare la spesa al supermercato!

Non mangiate nulla che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo.

Pensiamo a tutti i prodotti stipati in un supermercato, quanti tipi di biscotti, barrette, fiocchi, snack, sono riconducibili a un alimento presente in natura? Di quanti sapremmo indicarne gli ingredienti base se venissimo dal passato, o purtroppo anche se veniamo dal presente?

Da qui passerei a un’altra regola aurea:

Leggete sempre l’etichetta ed evitate quei cibi che hanno ingredienti sconosciuti, o impronunciabili.

Cerchiamo di evitare quei prodotti che hanno più di cinque ingredienti, che al primo posto hanno lo zucchero, o lo sciroppo di mais. Se dobbiamo comprare un yogurt, perché scegliere quello con coloranti, additivi e conservanti? Se vogliamo uno yogurt zuccherato o alla frutta, non possiamo aggiungerla noi?

Evitate quei cibi che non vanno mai a male

Il cibo dovrebbe essere un organismo vivente e in quanto tale deperibile. Non vi è mai capitato di lasciare per settimane una carota in frigo e ritrovarla uguale a prima? Io ogni volta mi spavento tantissimo…

Evitate prodotti che “fanno bene alla salute”

Questo è marketing, meglio girare alla larga, molto spesso ci troviamo di fronte a mode passeggere e paghiamo il prezzo della pubblicità, altro che bifidus actiregularis…

Nel supermercato evitate la zona centrale e fate la spesa nelle corsie periferiche

Perché è qui che si trova il cibo vero! Frutta, verdura, carne, pesce, pane. Ma leggete sempre l’etichetta!!

A queste regolette di Pollan, vorrei aggiungere un monito personale:

Le aziende non fanno il bene del consumatore, ma delle proprie tasche

Diffidiamo della sensazione di genuinità o di bontà che ci ispira un certo marchio, controlliamo sempre cosa stiamo comprando.



Quindi per riassumere, anche in un supermercato, cerchiamo di comprare CIBO VERO!

domenica 15 febbraio 2015

La vertigine della scelta

Ogni volta che entro in un grande supermercato sono colta da un lieve senso di panico, vago disorientata tra file e file di scaffali, sono nel tempio del cibo alla ricerca di qualcosa che risponda ai miei criteri di commestibilità e fatico a trovarlo. Forse per qualcuno suona assurdo.

Siamo nell’era dell’abbondanza (almeno da questa piccola parte di mondo in cui la parola carestia evoca scenari medievali e peste bubbonica) e la paura della fame, che ha accompagnato l’uomo fin da quando era solo un australopiteco, sembra vinta, o meglio temporaneamente azzittita, annidata nelle pieghe del subconscio, pronta a prendere nuove forme. Il cibo oggi ha perso la sua valenza fondamentale di nutrimento e mezzo di sopravvivenza, diventando piacere, coccola, soddisfazione, gratificazione. La concezione di consumo del cibo oggi è ampiamente svincolata da elementi come la provenienza, la stagionalità, le precipitazioni, gli assalti delle cavallette, varie ed eventuali. Siamo abituati a trovare di tutto al supermercato, ogni genere di frutta e verdura in qualsiasi stagione, ogni sorta di cibo processato e trasformato, prodotti di ogni colore e forma: siamo nel paese di Cuccagna e non ce ne siamo accorti. Con un’economia che si gioca su scala globale dipendiamo sempre meno dall’andamento dei raccolti, il nostro piatto non rimarrà vuoto per un’annata troppo piovosa, cibi importati da tutto il mondo terranno lontano lo spettro della fame.

Se il sogno dei nostri bisnonni di avere cibo in abbondanza tutto l’anno si è avverato, si è aperto però il baratro della scelta. Il detto “o mangi questa minestra o salti dalla finestra” non spaventa più nessuno, perché la possibilità, o meglio “il diritto” alla scelta, è ormai insito in ognuno di noi, consapevoli o inconsapevoli.
Ci troviamo di fronte a infinite opzioni e ogni giorno facendo la spesa e mangiando scegliamo anche chi essere e come indirizzare il mercato. Se da una parte mangiare oggi è diventata una questione più semplice, perché alla portata di tutti e di tutte le tasche, dall’altra ha assunto significati sempre più complessi e le trame che si intessono dietro a una banale banana sono sempre più difficili da sondare. Nell’era globale il carrello che riempiamo in Italia pesa sulle teste di gente che viene dal Perù, dall’India o dalla Costa d’Avorio. Mangiare è diventato un atto che può essere visto come culturale, etico, politico.


Siamo nell’era dell’autodeterminazione e della vertigine della scelta.